28/8/2008 (7:40) - INTERVISTA
Capirossi: "Vivo di pane e adrenalina, così sono arrivato a 277 Gp"
Loris Capirossi in sella alla sua moto
Domenica a Misano batterà il record di presenze nel Motomondiale
ENRICO BIONDI
Capirossi, è arrivato il momento di gettare la maschera: a 35 anni suonati, 277 Gran Premi domenica prossima e mai nessuno come lei al mondo. Cosa si è messo in testa?
«Di continuare finché ne avrò voglia e mi divertirò come faccio in questo momento. Per voi 277 Gp saranno anche tanti, a me non pesano. Quando entro in un circuito mi sento come un bimbo felice di avere ricevuto un nuovo gioco che non vede l’ora di provare».
C’è un segreto in questa longevità?
«Non so. Forse l’adrenalina che mi scorre addosso e che mi fa fare questo mestiere. O forse l’amore e la passione per la motocicletta. Io ci metto il cuore in tutto quello che faccio, sono uno che non molla mai e non si dà mai per vinto. Per questo in questo mondo mi trovo bene, anche se mi accorgo che sta cambiando moltissimo».
Si spieghi meglio. Vuol dire che non ci sono amici attorno a lei?
«Colleghi sì, amici veri no. Quando ho cominciato io, nel lontano 1990, le cose erano ben diverse. Magari ci scappava pure una partita a pallone, una bevuta al bar, una corsa in bicicletta lungo il percorso per vedere chi aveva il fiato per scollinare. Stavi nel paddock e incontravi tutti. C’era più serenità».
Pensa che non sarà più possibile tornare a quei tempi?
«Non è una cosa impossibile. È semplicemente impensabile».
Non ci dica che è colpa di tutti questi ragazzini che girano per il paddock. Sempre più giovani, sempre più bambini. Anche lei, quando arrivò, aveva 17 anni. E vinse subito.
«E invece sì: ci sono troppi ragazzini qui in giro. È vero che io vinsi il titolo giovanissimo, ma quando arrivai in questo mondo, mio babbo guidava un furgone telonato e io dormivo dietro, insieme con la moto. E quando Pileri mi fece firmare il primo contratto per un milione di lire al mese, a momenti mi mettevo a piangere dalla gioia. Oggi questi bimbetti viaggiano su motorhome da paura, hanno manager alle spalle, fior di sponsor che li appoggiano e pretendono la luna. Mica bello».
Il suo primo mondiale, nel ‘90, quanto le fruttò?
«Dodici milioni. Di lire, intendo. Che mi permisero di far tornare il sorriso sul volto di mamma Patrizia e di papà Giordano: avevano ipotecato anche la casa per farmi correre. Era il minimo che potessi fare, non le pare? Debbo tutto a loro se sono diventato un campione, anche se, sotto sotto, sapevo che prima o poi avrei sfondato. Insomma, se io ero la miccia, loro sono stati senza dubbio il fiammifero».
Adesso i milioni (di euro) abbondano. Anche per lei.
«Vero. Ma te li devi guadagnare e io so bene cosa vuol dire. Il Motomondiale è cambiato tantissimo. Oggi sei un numero: se reputano che non sei più all’altezza, ti scaricano e ti mettono alla porta. Senza nemmeno dirti grazie. È in quel momento che, se non sei pronto, rischi di sentirti il mondo crollarti addosso».
Allude?
«Beh, non posso certo dire che il trattamento ricevuto dalla Ducati sia stato bello. Eppure quella moto l’ho vista nascere, crescere, l’ho portata alla vittoria. E lo scorso anno, con Stoner in uno stato di grazia pazzesco, sul podio ci sono salito anch’io e l’ho portata anche alla vittoria. Ma ora basta: ci siamo chiariti, tutto è tornato a posto. Non sono il tipo da portare rancore. Mai».
Il momento più bello della sua carriera?
«Il primo mondiale e quando è nato Riccardo».
Quello peggiore?
«Nel 1997, sono andato a un passo dal dire addio a tutto. Ero in Aprilia, correvo in 250 e la mia moto si rompeva sempre. Non ce la facevo più. Carlo Pernat (suo attuale manager e a quei tempi direttore sportivo a Noale, ndr) mi spostò nel team di Mauro Noccioli, toscano verace e gran conoscitore di uomini e moto. Fu la mia salvezza e nel ‘98 vinsi anche il titolo mondiale».
E fu licenziato in tronco dall’Aprilia...
«Ancora quel benedetto sorpasso su Harada: in tutte le sedi ho dimostrato la mia innocenza e ho vinto in tutti i gradi di giudizio. Era l’ultima curva del Gp di Argentina: se l’avessi passato avrei vinto il titolo. Non potevo non provarci: lui mi lasciò lo spazio, io passai e lui cadde. A Noale se la presero con me. Sbagliarono».
C’è un altro Capirossi all’orizzonte?
«No. Non mi pare. A dire la verità non ci ho mai pensato. Dico sempre che guidare una moto non è un mestiere, ma un gioco. E tale deve restare. Se ti assale la paura allora è meglio che smetti subito, prima che sia troppo tardi».
Quando smetterà, rimarrà nei paraggi?
«Ma neanche per sogno. Non vedrete un Capirossi Team da qualche parte e io che ciondolo nel paddock. Andrò a vedere qualche gara, questo sì, ma è molto meglio la mia nuova attività di immobiliarista. A proposito: vuole comprare una casa a Montecarlo?».
forza Loris