Da Motosprint n°36 del 1998 (1-7 settembre)
Articolo di Loris Reggiani
Sono il manager di Marco Melandri e sono felice di esserlo, non per i probabili guadagni, non ho di questi problemi, ma vorrei raccontarvi come è successo tutto, così forse potrete capirmi.
Già nel '94 avevo sentito la voglia di aiutare qualche giovane a sfondare in quel mondo che a me aveva dato tanto. Non so come dire, sentivo quasi il bisogno di rendere a quel mondo qualche cosa, ripagarlo almeno in parte di tutto quello che mi aveva dato. Ero consapevole del fatto che troppi giovani non hanno i mezzi finanziari per provarci, quindi non potranno mai dimostrare quello che valgono.
Creai assieme a Massimo Piazza, un amico di Forlimpopoli che correva con me ai tempi del trofeo Aspes, una strutturine con due sport-production Aprilia. Anzi diciamo pure che la strutturina era la sua, con la quale aveva corso nei Campionati italiani fino a qualche anno prima, e che io facevo un po' da direttore sportivo. Per me trovare qualche sponsor e qualche sconto giusto, per non rimetterci troppi soldi era abbastanza semplice, bastava solo impegnare un po' di tempo, e così ho fatto.
Diedi la possibilità a un paio di giovani che mi sembravano meritarsela, corsero senza spendere una lira, ma non facevano risultati e l'unica cosa che sapevano veramente fare era... lamentarsi! Avevano sempre di che ridire sul presunto trattamento di favore che avremmo fatto guardacaso all'altro pilota, sul fatto che le moto non andavano mai come quelle degli altri, che le gomme non erano mai quelle giuste! Sembrava quasi che fossi io a sfruttarli, addirittura una volta il padre di uno di loro mi chiese se non fosse giusto che dessi un ingaggio a suo figlio.
Ero deluso ed amareggiato, non dalla mancanza di risultati, quella è una variabile logica in questo sport, ma dalla assoluta mancanza di rispetto e gratitudine. Piazza addirittura voleva strozzarli. È proprio vero, se non sopporti l'ingratitudine, non aiutare!
Un giorno Macio, che gravitava in mezzo a noi in virtù di un padre appassionatissimo, (anche lui mio vecchio compagno di avventura agli albori), campione indiscusso di minimoto, che veniva spesso ad allenarsi su una pistina vicino a dove abitavo tempo fa, 12 anni all'anagrafe e 9 dimostrati forse poco più di 1 metro e 40, con la sfrontatezza di uno che ti vuole prendere per i culo, bonariamente fa: «Fate provare a me una di quelle moto, vi faccio vedere io co me si va!».
Non l'aveva detto sul serio, credetemi però aveva ottenuto ciò che voleva: fare una prova con una moto vera, su un circuito vero.
Telefonai dopo qualche giorno a Dino suo padre, dicendogli che il tal giorno ci sarebbe stata la possibilità di provare a Magione e se poteva andargli bene, lui mi disse: «Ti passo Marco, deve decidere lui». Rimasi estasiato, non è facile che un padre lasci prendere delle decisioni così importanti al figlio dodicenne, che non voglia mettersi in mezzo, che lo responsabilizzi così tanto. Mi affascinò, quella risposta, e mi dissi che se avessi mai avuto un figlio, quello era il modo in cui avrei voluto comportarmi.
Il cambio Marco l'aveva già provato sulla moto da minicross che usava per allenarsi, ma l'autodromo quello no, non l'aveva mai visto... almeno da dentro.
Magione, una bella giornata di novembre, quattro turni da 25 minuti ciascuno. Marco guardava la moto che Orlando Petracci (mio primo meccanico da corsa) gli stava approntando. Era estasiato. Per farcelo arrivare avevamo dovuto alzare le pedane di un bel po', ma il manubrio era fisso, non lo si poteva spostare ed il serbatoio per lui era enorme. Arrivava alle manopole con le braccia quasi del tutto stese.
È giunta l'ora del primo turno, scaldata la moto ci accingiamo a spingerla fino all'entrata dei box, Macio si era già da molto tempo infilato la vecchia tuta di suo padre, che per lui era enorme, sembrava dentro un sacco di patate, e con gli occhi lucidi ci chiese: «Posso spingerla io, fin là?».
Che emozione fu per me non ve lo immaginate neanche.
Aveva una passione enorme, esattamente come quella che avevo io quando, un po' più vecchio di lui, provavo le mie prime emozioni di motociclista da corsa. Mi si sono inumiditi gli occhi.
Spingeva quella moto con le braccia parallele al suolo, era veramente troppo piccolo, come avrebbe fatto a farcela? Eravamo tutti pronti a prenderlo bonariamente in giro. Gli reggemmo poi la moto dal davanti, lui ci saltò su e noi lo spingemmo finché non parti. Non ci arrivava proprio per terra, neanche per sogno, così quando alla fine del primo giro si fermò, gli corremmo tutti attorno per sorreggerlo, altrimenti come avrebbe fatto? Ci disse: «II contagiri non va!». La spinetta che teneva spento il contagiri in effetti non era stata disinserita, ma cacchio! Al primo giro che fa su un circuito vero, con una moto vera, va già a cercare il contagiri? Disarmante!
Alla fine del terzo turno, dopo aver perso il secondo per la rottura di un raccordo del freno anteriore, ci aveva già detto che la moto saltava un po' dietro (come mai non avevamo pensato che pesava venti chili in meno del pilota di quella moto e che quindi andava ammorbidita?), che faceva 12.200 giri sul dritto di sesta, e che sotto i 9.000 giri bisognava sfrizionare se volevi uscire forte, perché era un po' vuota a quel regime!!! L'ultimo turno Macio girò solo un secondo e mezzo più lento del record della categoria, e due piloti che correvano in quel campionato, che erano li ad allenarsi, non riuscirono a superarlo, sebbene ci abbiano provato per un bel po'.
Andando a casa Macio non smise un attimo di ringraziare tutti quanti eravamo, ringraziò anche le gomme del furgone che ci avevano portati fin là senza darci nessun problema. In quel momento era un ragazzo felice, molto felice, come lo eravamo d'altra parte tutti noi.
Quel giorno ho capito che Marco Melandri non avrebbe avuto mai nessun problema a guidare e a vincere con nessun tipo di moto, proprio nessuno. È per questo che ogni tanto non capisco perché tutti si stupiscano di quello che Macio sta facendo, perché io lo sapevo già!
_________________ Saluti, Alexcondor
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