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 Oggetto del messaggio: Un bella intervista a PAVAROTTI
MessaggioInviato: gio 06 set, 2007 11:50 am 
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Colonnello Bernacchia
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Iscritto il: gio 09 set, 2004 11:36 am
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Ettore MO, vecchio amico di Pavarotti, descrive un suo incontro con lui, poco prima che Pavarotti peggiorasse:


Pavarotti e la malattia



«Non voglio più ascoltare nessuna mia registrazione»


PESARO — Ferragosto a villa Giulia. «Ora ho solo bisogno dell’aiuto di Dio e sembra proprio che Dio me lo stia dando», dice il Maestro — come tutti qui lo chiamano — nella sua splendida casa in collina davanti all’Adriatico. Convalescente dopo l’intervento, il mese scorso, per la rimozione di un cancro al pancreas, Luciano Pavarotti viene spinto lentamente attorno, da uno spazio all’altro, su una sedia a rotelle, dove resta inchiodato immobile da mane a sera. È il suo ultimo trono di re dei tenori.

Ma nonostante la gravità del male che l’ha colpito e le difficoltà di un’operazione che è tuttavia riuscita ad estirpare interamente la massa tumorale, non ha l’aria afflitta e sconsolata di uno che è giunto «sul passo estremo » (come ha spesso cantato nel Mefistofele) e ha visto la morte da vicino. Ha conservato quel suo inconfondibile calore solare della voce (canta anche quando parla) e tale e quale è rimasto il suo sorriso di ragazzone emiliano, che gli spunta negli occhi prima di trasferirsi sulle labbra.

Siamo amici, lo conosco da quarant’anni, l’ho sentito cantare alla Scala e in tutti teatri del mondo. Lo vidi per la prima volta a Londra, negli anni Sessanta, quando venne chiamato al Covent Garden per rimpiazzare nella Bohème il grande Di Stefano, indisposto. Un trionfo. Stavo a pranzo in un ristorante vicino al teatro con Fiorenza Cossotto quando lui entrò gagliardo come Radamés con degli amici e si sedette a un tavolo. «Guardalo — mi disse la Fiorenza —, con Gigli è la più bella voce di tenore del secolo».

Il giorno dopo, infatti, i giornali inglesi impiegavano titoli strepitosi per definire la sua interpretazione di Rodolfo nella Bohème: nessun rimpianto per Di Stefano, scriveva il critico di un importante quotidiano. Pavarotti adesso non se lo ricorda, ma quando io gli chiesi, allora, cosa pensasse del lusinghiero accostamento col tenore italiano più osannato del firmamento lirico mondiale, rispose con una battuta semplice, com’è nel suo stile: «Calma—disse —, ragioniamo. Pippo è un fuoriclasse. Quand’è in serata, non c’è nessuno che gli stia a ruota. È come quando Bartali vedeva Coppi scattare sul Pordoi... Quello non lo piglia più nessuno... borbottava Ginettaccio. Capisci cosa voglio dire?».

Di Stefano è tra quelli che ogni giorno gli telefonano per avere notizie sulla sua salute, sul recupero e la riabilitazione: «Mi ha chiamato appena ieri — dice —. La sua voce, per me, è musica, è la musica. Lui è stato l’ispiratore, l’emissione perfetta, le vocali aperte, quel suo modo unico di fraseggiare. Nonostante le mie condizioni, il connubio dei tre tenori non si è dissolto. Placido Domingo è venuto a trovarmi un paio di volte, José Carreras mi telefona... È stata una gran bella stagione, la nostra. Però io non mi ascolto più. Non mi voglio sentire. Se tu mi invitassi a cena e, per farmi piacere, mettessi su una mia vecchia incisione, ti pianterei in asso, dietro front. Se vuoi che resti, fammi sentire la voce di Placido».

Sono sconcertato, ma da Luciano non arriva alcuna spiegazione. È qui seduto davanti a me nella sua grande mole, un cappello a larga tesa che nasconde la calvizie e tiene un poco in ombra i suoi occhi vivacissimi e dolci, i soliti camicioni multicolori che gli conferiscono un’aria clownesca, come volesse ricordare che c’è stata, per tutti, un’infanzia felice, da circo equestre, con guitti, trapezisti, tigri addomesticate e inermi orsi giocherelloni.

Dice: «Sono stato un uomo fortunato e felice fino a 65 anni. Dopo è arrivata questa batosta. E adesso sto pagando il fio di quella fortuna e felicità. Ma trovo alimento nella mia infanzia, che è stata povera e felice, e vedo le cose con serenità. Le malattie non mi hanno angosciato. Il tumore te lo senti dentro, ti lavora. Ora dormo bene. Ho una certa sonnolenza durante la digestione, proprio come adesso che ti sto parlando.. Però sono e sarò ottimista fino alla morte. L’ho imparato dai miei, dal papà e dalla mamma che se ne sono andati quattro anni fa, a quattro mesi l’uno dall’altra ».

È rimasta la sorella Gabriella, grande e cordiale e col più affabile dei sorrisi che ci riporta nella Modena anni Cinquanta quando Luciano studiava canto con Mirella Freni per poi debuttare, insieme, a Reggio Emilia in una indimenticabile Bohème. «Nella vita ho avuto tutto, davvero tutto— ha confessato dopo l’intervento allo Sloan Kettering Hospital di New York — Se mi venisse tolto tutto, con Dio siamo pari e patta».

Cerco di sturargli i ricordi della sua vita e della sua carriera e mi sento a disagio. Mi rendo conto che lo sto affaticando. Più di una volta una domanda resta senza risposta. Spesso, le palpebre si abbassano sugli occhi come saracinesche, è l’ora del letargo pomeridiano, muove appena le labbra come volesse accennare una delle dolcissime arie del suo illimitato repertorio... È la solita storia del pastore, quindi non più stupide domande, lasciamolo sognare.

A svegliarlo, di colpo, ci pensa Alice, la sua bambina, che piomba nella stanza come un folletto e ne reclama l’attenzione: «Dai, papà, andiamo in piscina». «Non so se capisci — dice il re del melodramma sollevando a stento le palpebre —, non si tratta di un invito. È un ordine. Ed io, come Garibaldi, ubbidisco ». Lo spettacolo comincia. Un atto unico con due sole protagoniste: la bimba, che ha tre anni e mezzo e nuota come un pesciolino, e la sua mamma, Nicoletta, che si diverte un mondo assecondandola nelle sue acrobazie. Alice, assicura Luciano, ha una voce molto bella e forte e il suo papà, orgoglioso, la invita ad esibirsi tra un tuffo e l’altro.

«La canzone che meglio conosce — dice — è Fratelli d’Italia, che ha imparato guardando alla Tv le partite di calcio della Nazionale. Riesce a cantarla anche sott’acqua, ascoltala ». La sua vita ora è qui, in «quest’angolo di paradiso ». Perché villa Giulia? «È il nome di una delle mie nonne di Modena». Il 12 ottobre prossimo compirà 71 anni e mi sembra indelicato chiedergli se potrà realizzare quei progetti che gli stavano a cuore prima che fosse assalito così brutalmente dal male: come fare un duetto con Mina o allestire una scuola di canto con la Freni e la Kabaivanska o perseguire l’obiettivo di Pavarotti and friends, favorendo delle grandi ugole liriche nei concerti di musica pop.

«All’inizio — ammette — ci son state delle polemiche perché mi ero avventurato in un genere totalmente diverso. Successivamente... mi hanno applaudito. E c’è chi rimpiange che non l’abbia più fatto, il pop». Non oso dirgli che faccio parte del branco dei conservatori: e che al Miserere urlato insieme a Zucchero preferisco di gran lunga l’Ingemisco del Requiem verdiano dove la sua voce raggiunge con vibrazioni arcane le zone sideree del pentagramma.

Ettore Mo

06 settembre 2007

_________________
METEOROLOGO E CONSULENTE CINOFILO

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