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Lima gomiti
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Colonnello Bernacchia
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Colonnello Bernacchia
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El mágico Guru de Cataluña
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Testa fusa
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:lol: :lol: :lol:

olè!

shevchenko a casa e noi ai quarti *saltella allegramente*

fate santo buffon

mi spiace solo per l'olanda di van basten eliminata agli ottavi


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Gilles Vive!
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bè di certo io e un mio amico ci siamo fatti sentire in tutta Cassano...in due scooter facevamo più casino di tutte le macchine del centro!! :oo: :oo:

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io e kenny siamo compagni di merende...l'ha detto kabuno :angelo: http://s5.bitefight.it/c.php?uid=26622


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chesadafapecampà!
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Albertosi;
Burgnich, Facchetti;
Bertini, Rosato (dal 1' del p.t. suppl. Poletti), Cera;
Domenghini, Mazzola (dal 46' Rivera), Boninsegna, De Sisti, Riva


Italia - Germania del 1970 non fu una semplice partita di calcio. In essa si mescolarono tante di quelle componenti che alla fine fecero quasi passare in secondo piano il fatto puramente sportivo per innalzare quello puramente fiabesco. Italia - Germania rappresenta in se' il classico esempio di come, a volte, il naturale ed incredibile evolversi degli eventi riesce a superare anche la più fulgida immaginazione di uno scrittore professionista che decide di scrivere un romanzo su di una partita di calcio.
E' il 17 Giugno 1970. In Messico stanno per concludersi i Mondiali di Calcio. Quattro squadre sono giunte alle semifinali, quattro squadre possono cullare il sogno di alzare il trofeo più ambito da ogni calciatore. Il Brasile di Pelè, la Germania di Beckembauer, l' Uruguay di Cubilla e l' Italia di Rivera.
Le partite di semifinale si giocano in contemporanea alle ore 16: i brasiliani dovranno vedersela a Guadalajara con gli altri sudamericani dell' Uruguay mentre le due "europee" Italia e Germania si scontreranno fra loro a Città del Messico.
E' sempre il 17 Giugno 1970. Spostiamoci ora definitivamente allo Stadio Azteca, stracolmo degli oltre 103.000 spettatori che può contenere. Le nazionali di Italia e Germania fanno lentamente il loro ingresso in campo. Picchia forte il sole, e picchia forte ancor di più l' idea fissa che assale i 22 protagonisti in campo. Si rendono perfettamente conto di essere ad un passo da quel sogno coltivato fin da bambini; ancora 90 minuti di sofferenza per poi andarsi a giocare la partita della vita. Ma quel giorno, a Città del Messico, il destino aveva già deciso: molti minuti in più e molte altre sofferenze sarebbero servite ai contendenti per guadagnarsi il tanto agognato biglietto per la finale e battersi contro il formidabile Brasile.
L' eterno dilemma di Valcareggi di schierare Rivera o Mazzola alla fine viene risolto con l' utilizzo di quest' ultimo. Partono bene gli azzurri, subito all' attacco ed all' ottavo minuto già in vantaggio. E' Boninsegna a mettere in rete il gol che tagierà le gambe ai tedeschi per quasi tutto l' incontro. La partita segue un canovaccio ben delineato: la Germania alla disperata ricerca del pareggio e gli azzurri a colpire in contropiede cercando di mettere a segno il gol della certezza.
Quando ormai i giochi sembrano fatti ed le lancette del cronometro cominciano a compiere l' ultimo dei 90 minuti regolamentari arriva l' imponderabile: il difensore tedesco Shnellinger, sganciatosi in avanti alla disperata, colpisce di piatto infilando la porta di Albertosi. E' il 90° ed in Italia si stavano già stappando bottigle e ci si stava preparando a scendere in strada per festeggiare. Una beffa.
Si va dunque ai supplementari, quei trenta minuti in più da giocare che resero veramente storica questa partita. Al sesto minuto del primo tempo supplementare, visto che le disgrazie non vengono mai da sole, ecco la seconda beffa: Gerd Muller, sfutta un malinteso della difesa azzurra e deposita la palla in fondo al sacco. E' incredibile, dopo aver accarezzato il sogno della finale l' Italia in soli 6 minuti si ritrova inaspettatamente in svantaggio. Passano soli 3 mimuti e torna l' equilibrio: e' Burgnich a mettere in rete sfruttando al meglio una punizione di Rivera mal controllata dalla difesa tedesca. 2-2. Il telecronista Nando Martellini, nell' occasione disse: "Il difensore Burgnich ha restituito il gol messo a segno dall' altro difensore Schnellinger e siamo di nuovo in parità". Era cosa abbastanza rara che agli inizi degli anni 70 un difensore potesse andare a rete.
L' Italia insiste, ora sa che può farcela e due minuti dalla fine del primo tempo supplementare riassaporiamo il profumo della vittoria. Da Rivera a Domenghini, cross per Riva che controlla e sferra un tiro che batte Maier e ci porta sul 3-2. Andiamo al riposo in vantaggio.
Tornati in campo dopo soli 5 minuti la Germania riacciuffa il pareggio. A segnare è ancora il piccolo Gerd Muller che infila Albertosi per la terza volta in una circostanza a dir poco rocambolesca: la palla, colpita dal centravanti tedesco, passa proprio accanto a Rivera che era appostato a protezione del palo. Un tiro assurdo che a guardarlo cento volte non si riesce ancora a capire come possa essere entrato. I tedeschi festeggiano, gli azzurri sono increduli. 3-3.
Palla al centro. Uno, due, tre passaggi. Fuga di Boninsegna sulla sinistra, palla al centro per Rivera che si trova praticamente la porta spalancata con il solo portiere Maier a tentare di difenderla. E' magico quel colpo di piatto, è storico, è preciso. Maier da una parte e pallone dall' altra. E' il gol del 4-3. E' il gol della vittoria. E' il gol che trascina milioni di italiani in strada e che ci regala la possibilità di andarci a giocare una finale del Campionato del Mondo. E' l'epilogo di quella che è da sempre considerata la partita del secolo. Allo Stadio Azteca di Città del Messico, in memoria di quell' incontro memorabile, fu messa una targa. La targa è ancora lì. Anche il cuore di tutti noi è rimasto ancora lì, a quell' assolato pomeriggio messicano che ha mostrato al Mondo intero il grande Cuore di una grande nazione, la nostra.

ITALIA - GERMANIA 4:3 (1:0)
17.06.1970 (ore16.00) Città del Messico, Stadio Azteca
(Spettatori: 103000)

ITALIA: Albertosi, Cera, Burgnich, Bertini, Rosato (94 Poletti),
Facchetti (c), Domenghini, Mazzola (46 Rivera),
De Sisti, Boninsegna, Riva

GERMANIA: Maier, Schnellinger, Vogts, Patzke (66 Held),
Schulz, Beckenbauer, Overath, Seeler (c),
Grabowski, Muller, Lohr (52 Libuda)

1:0 Boninsegna (7), 1:1 Schnellinger (90)
1:2 Muller (95), 2:2 Burgnich (98)
3:2 Riva (104), 3:3 Muller (110)
4:3 Rivera (111)


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Zoff,
Gentile, Scirea,
Collovati, Cabrini, Oriali,
Bergomi, Tardelli, Conti, Rossi, Graziani

(cronistoria dei mondiali '82 da leggere tutta d' un fiato)

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Lo Zio Tazio

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1934
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Immagine (Schiavo e Meazza)
Immagine(gol di Orsi)





1938
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Immagine (Ferrari e Meazza)
Immagine (Piola)
Immagine (gol di Piola)
Immagine (Colaussi)




1982
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El Mariachi
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Brasile 1950

una pagina di storia che va oltre il gioco del calcio





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A volte la leadership è sinonimo di coraggio e di visione del futuro: in un parola di personalità. In molti parlano di esempi eclatanti tratti dalla vita di personaggi pubblici che hanno condizionato gli eventi della storia. Alessandro Magno, Cesare, Napoleone, Gandhi sono stati leader con i quali la storia ha dovuto fare i conti. Altrettanto valenti sono secondo me esempi che possono essere tratti dal mondo dello sport. Obdulio Varala, il grande capo nero, è senza dubbio un personaggio che ci ha insegnato qualcosa in termini di leadership.


La nazionale brasiliana forte di un gruppo di giocatori considerati insuperabili per estro, fantasia, velocità e capacità di gioco affrontò nella finale del Campionato del Mondo del 1950 la nazionale dell’Uruguay. Si giocò al Maracanà di Rio de Janeiro, stadio imponente e unico al mondo per capienza di posti, circa 200.000. Lo stadio era stato inaugurato per quell’edizione del Campionato e destinato ad ospitare le partite della nazionale locale e la finalissima, che si presumeva avrebbe visto protagonista proprio quella nazionale.

Per dirla tutta, quella giocata il 16 luglio 1950 non era una finale vera e propria. Era l’ultima partita di un girone finale, formula che venne sperimentata solo in quella edizione del Campionato.

Comunque per l’incrocio dei risultati delle partite precedenti, che coinvolsero anche Spagna e Svezia (strabattute dal Brasile rispattivamente per 6-1 e 7-1!), quella del 16 luglio 1950 fu effettivamente la partita decisiva che, fra l’altro, avrebbe consentito al Brasile di diventare Campione semplicemente pareggiando.

Un bel problema per gli uruguayani. Dover incontrare una delle nazionali più forti di tutti i tempi, che giocava in casa, di fronte ad un pubblico ferocemente convinto di portare a casa risultato, spettacolo e coppa.

Obdulio Varela, il grande capo nero, era un giocatore tecnicamente mediocre, ma dalla forte personalità. Un leader in tutto e per tutto al servizio della sua squadra di club, il Peñarol, e della nazionale del suo paese, l’Uruguay. Consapevole della propria forza emotiva e del valore dei propri compagni prese per mano la sua squadra e la portò a conseguire un risultato che nessuno si sarebbe aspettato.
Uno dei risultati calcistici più clamorosi della storia.

Nella partita conclusiva del girone finale del Campionato del Mondo del 1950 era a dir poco improbabile che qualcuno potesse pronosticare una vittoria dell’Uruguay, specialmente dopo che il Brasile, al primo minuto del secondo tempo ebbe ottenuto il punto dell’uno a zero con un bel gol di Friaça.

Solo un uomo con doti di leadership immense poteva risvegliare nei compagni la voglia di prendere un pallone, giocarlo e andare a vincere una partita in condizioni impossibili.

In quel caso le sue doti vennero codificate in atti e gesti degni di un vero capo, un capo autorevole e incontestabile.

L’inizio della riscossa fu entusiasmante.
Dopo che la palla ebbe finito di rotolare in fondo alla rete Obdulio Varela andò a prenderla.
La sistemò sotto il braccio e senza esitazioni, ignorando il boato incredibile prodotto da 200.000 brasiliani impazziti sugli spalti, ignorando la disperazione dei compagni, ignorando l’entusiasmo dei giocatori avversari, andò dritto verso il centro del campo, marciando a testa alta.
Sistemò il pallone nel cerchio di centrocampo e si voltò a guardare i compagni.
A distanza di anni i fortunati che erano in campo quel giorno parlano ancora dello sguardo di Varela e ricordano le uniche parole che disse in quel frangente, le uniche parole che udirono provenire dalla sue labbra in tutta la partita: “questa partita la vinciamo noi”.

Il grande capo nero, come lo chiamavano compagni e tifosi aveva 33 anni nel 1950. Da 13 era un giocatore professionista. Prima come centrocampista difensivo poi come libero aveva giocato nel Wanderers e nel Peñarol di Montevideo, calcando quasi tutti i campi del Sud America.

Esattamente diciannove minuti dopo il gol del Brasile, Schiaffino, grande talento del calcio mondiale di tutti i tempi, infilò la porta di Barbosa, il portiere della nazionale verde oro.
Tutti i commentatori dell’epoca riferiscono dell’irreale silenzio che accompagnò il fatto. L’Uruguay stava frantumando le speranze delle 200.000 persone allo stadio e dei milioni di persone fuori.
Obdulio non disse niente e nemmeno i suoi compagni festeggiarono più di tanto il gol. In un certo senso rispettarono gli avversari.

Da notare che fino ad allora la partita era stata sostanzialmente equilibrata. Nel primo tempo la straordinaria potenza offensiva del Brasile aveva impressionato ma in verità le occasioni da gol erano state poche e poco limpide. Fra l’altro l’Uruguay aveva a sua volta impensierito la difesa del Brasile con blande azioni di rimessa. Nel secondo tempo la partita sembrò decollare con il gol di Friaça.
Se non che appunto la sapienza di Varela rimise le cose a posto. Con la scena della marcia verso il centro del campo e la recita della frase di incitamento verso i compagni il grande capo nero aveva fatto si che la partita rimanesse ad un tono emotivo basso e nel contempo aveva mosso l’orgoglio dei suoi.

Il gol di Schiaffino, voluto e cercato da tutti, fu l’effetto del lavoro di motivazione e della capacità di controllo del capo. Un leader che seppe serrare le fila e rilanciare in un momento fondamentale.

Come dicevo il Brasile poteva accontentarsi del pari. Sarebbe bastato quell’uno a uno per rendere immortale quella nazionale. Sarebbe bastato difendere un risultato tutto sommato giusto.

Obdulio non diceva niente ai suoi. Non parlava appunto da quando aveva chiesto la vittoria.

Come un bravo generale se ne stava nella sua posizione. Copriva gli spazi, rilanciava, agiva in anticipo sugli avversari. Sapeva che fare quello e farlo bene sarebbe stato sufficiente a vincere quella partita. Allo stesso modo coordinava i compagni nella tattica di gioco.
Bisognava difendere bene e rilanciare per la velocità di Ghiggia e Schiaffino.
Tutti sapevano che Varela li stava guardando. Era un comportamento determinato, motivante, quello che ci voleva per quei compagni.
Infatti appena ne ebbe l’occasione Ghiggia, su lancio di Obdulio, infilò la difesa avversaria e mise dentro la palla per la seconda volta.
Erano passati tredici minuti dal gol di Schiaffino.
E il Brasile non era riuscito a capire cosa stava accadendo.

Nessuno disse ancora nulla. Solo silenzio e niente altro.
Ghiggia alzò le braccia e corse verso Varela semplicemente in silenzio.

Obdulio Varela aveva liquefatto il Brasile con la carica della propria personalità. Aveva saputo sfruttare i momenti giusti, usato gli argomenti giusti e compiuto quello per cui era nato e si era formato in tante partite.



Dopo la partita, che laureò l’Uruguay per la seconda volta Campione del Mondo, particolare non da poco, il capitano Obdulio Varela andò a spasso per la città di Rio de Janeiro. Era notte e il dramma del pomeriggio stava ancora producendo i suoi frutti. La città era immersa in un penoso silenzio.

I pochi avventori dei bar del centro ebbero il privilegio di bere con Obdulio, quello che li aveva sconfitti. Forse nessuno lo riconobbe veramente. Comunque sia il capitano passò la notte a bere e fumare sigarette nei bar di Rio.
Non fu, come disse lui successivamente, un modo per denigrare i tifosi avversari, ma un modo per ribadire la propria dignità di campione dello sport rendendo onore ai vinti.

Bevve con i tifosi affranti per rendergli omaggio.
Far capire che la loro squadra era stata sconfitta dall’organizzazione di gioco, dall’umiltà, dalla capacità di far fronte alle difficoltà di un gruppo di gente come loro. Un gruppo per il quale un ottimo leader aveva trovato gli stimoli giusti.

Cercava di farlo capire con un’azione empatica. Immedesimandosi con il dolore dei vinti nella depressa notte di Rio. Direttamente non parlò a nessuno della partita ma fece capire da che parte stava, come era andata al Maracanà, quale impressione aveva avuto della città.
Ci vuole coraggio per andare in mezzo ai bar di Rio a parlare di un dolore ancora cocente. Spiegare che la dignità di una sconfitta è sempre superiore ad ogni vittoria.

Le prerogative della leadership giungono anche a questo. Avere la dignità e il coraggio di spiegare agli sconfitti come è andata la cosa. Perché hanno perso. Dove hanno sbagliato.
Non c’era timore nelle sue parole ne tanto meno ironia. Si ubriacò con le migliaia di brasialiani affranti di quel giorno.

Obdulio ci conferma ancora che le doti di leadership sorgono su un humus di dedizione, coraggio, lealtà, dignità e soprattutto di comprensione. Essere leader significa generare una serie di comportamenti che modellano uno stile di vita e sono a loro volta frutto di approcci alla vita all’insegna dell’onestà.



Tornata in patria la squadra nazionale dell’Uruguay venne accolta da un incredibile entusiasmo. All’aeroporto c’erano migliaia di persone. I giocatori scesero dall’aereo e si immersero in una folla immensa che li acclamava. L’eccitazione di tutti era al massimo.

Obdulio, ultimo della fila, non sorrideva. Era impassibile, serio, si leggeva ancora la determinazione nel suo volto. Aveva compiuto il proprio dovere, svolto il suo lavoro. Ora accoglieva la gloria con la dignità di un vero capo. Cercando, con la sua audacia, di riportare tutti sulla terra. Perché in fondo era stata una partita.

Conoscere il proprio limite, sapere dove si sta negli innumerevoli significati della vita, vuol dire davvero essere un grande. Questo era scritto nella vicenda umana di Varela. Le immagini sbiadite di quei momenti testimoniano a tutti, ancora oggi, queste dinamiche.

Il grande capo nero, con diciassette denti in bocca, le gambe martoriate, e una forte, perenne, emicrania, aveva capito che la sua squadra avrebbe vinto la finale, che una partita non è poi la fine del mondo, che, infine, bisogna essere capaci di vivere fino in fondo le proprie possibilità.

Con tutti i limiti che può avere l’analogia sportiva, il calcio in genere e la scelta selettiva di chi vuole trarne insegnamento penso che una metafora come quella di Varela sia un esempio eclatante di quelle che devono essere e sono le doti di un vero leader, nella pratica quotidiana della sua esistenza.

Da quel lontano 1950 la nazionale brasiliana ha vinto per ben cinque volte il Campionato del Mondo di calcio. L’Uruguay non ha più vinto un Campionato.


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