Il destino conduce gli uomini su strade alle volte estremamente misteriose.
Ed è il destino l'autentico,assoluto protagonista della vicenda umana di Ambrogio Fogar,l'uomo che tentò di portare la sfida all'ignoto,al pericolo, oltre la soglia dell'umano.
La sua è una storia importante, vera e umana.
La storia di un uomo che,affascinato dall'incognito, dotato di uno spirito libero e avventuroso, scelse di sfidare la natura,vincendo molte battaglie, perdendone alcune, fino a combattere oggi quella più difficile: vivere attaccato alle macchine, portando avanti un'altra battaglia.
Quella che conduce all'esplorazione dell'io, dimostrando che si può essere ancora un uomo pur non camminando, pur dovendo dipendere, per vivere e respirare, dall'affidarsi a quelle macchine che lui, esploratore indomito amava così poco.
Fogar nasce a Milano il 13 agosto del 1941.
Sente sin da piccolo l'attrazione fatale per la natura e per le sfide estreme ad essa; decide di attraversare le Alpi con gli sci e lo fa, da grande testardo qual è.
Ma non gli basta, e così sceglie un'altra sfida, il volo: si arma di paracadute e si lancia 50 volte, fino a quando, un grave incidente, gli impedisce di continuare.
E allora lui decide di prendere il brevetto di volo e impara a guidare piccoli aerei; ma stà per avere l'incontro che gli cambierà la vita, quello che lo consegnerà alla leggenda.
Il mare. Le sue lunghe e incontaminate distese di un azzurro che alle volte fanno male agli occhi, la sua solitudine e il suo pericolo, due costanti che faranno parte, come una seconda pelle, del suo essere.
E' un amore immediato e assoluto.
E lo dimostra,il suo amore sia per esso che per l'avventura, imbarcandosi in una sfida temeraria: attraversare l'Atlantico del nord.
Ci riesce, e la cosa ha dell'incredibile, perché per buona parte del viaggio sarà costretto a navigare senza timone.
Nel 1972,appena tornato dal viaggio,progetta una nuova impresa:questa volta parteciperà alla regata Città del Capo-Rio De Janeiro.
Parte a gennaio,e ritorna. Giusto in tempo per lanciarsi in un'altra impresa,e questa volta in una di quelle da far tremare i polsi.
Sceglie infatti la traversata in solitario del mondo,ma non con i canoni classici:non sarebbe Fogar se non scegliesse la cosa più difficile.
Da est ad ovest,contro il senso delle correnti, contro il senso stesso dei venti.
E' un viaggio che lo cambierà profondamente.
Per tredici mesi,da novembre del 1973 a dicembre 1974 sarà solo con se stesso, aggrappato alla sua barca. Attorno a se soltanto il blu sconfinato degli oceani,per compagno il vento e la pioggia, quel senso di solitudine che coglie l'uomo alle prese con la natura,piccolo fuscello in balia dei suoi elementi.
Matura in se la convinzione di poter raccontare, grazie al bagaglio delle sue esperienze, un mondo fatto soltanto di suoni e colori che il cittadino e l'uomo qualunque non possono avvertire.
E' la base di quelle che saranno le sue esperienze successive, narrate poi nei suoi libri e attraverso quella straordinaria, incredibile esperienza che sarà Jonathan,dimensione avventura, il programma televisivo dell'allora Fininvest che lo farà conoscere al grande pubblico.
Partecipa ad una spedizione nel triangolo delle Bermuda, alla quale si unisce il grande Majorca, campione di immersione in apnea, lo pseudo sensitivo Uri Geller, e il professor Carabelli del Politecnico di Milano.
Lo scopo è quello di tentare di dare una spiegazione scientifica alle misteriose sparizioni di navi e aerei nella zona marina, compresa nelle acque attorno alle Bahamas.
L'esito della spedizione sarà per lui estremamente deludente.
Il destino, di cui parlavo all'inizio, decide di intrufolarsi nella sua vita.
E lo fa in maniera subdola.
Nel 1977 Fogar decide di partire con la sua barca, lo Spirit of Surprise, per un viaggio da Buenos Aires alle acque di Capo Horn.
Ad accompagnarlo c'è un giornalista ed amico, Mauro Mancini.
Il 19 gennaio 1978 è un giovedì.
I due amici stanno navigando quando un gruppo di orche attacca l'imbarcazione:in un lampo la barca affonda e i due riescono miracolosamente a salvarsi su una zattera di fortuna.
Senz'acqua ne cibo, le loro vite sono affidate all'imponderabile.
Per giorni e giorni i due sopravvivono grazie all'acqua piovana e a una piccola, microscopica riserva di grasso. Di quei giorni c'è traccia nel diario di Mancini: "Ambrogio Fogar è stato un marinaio esemplare e un uomo molto coraggioso". E ancora: "Desidero che il giornale tratti sempre Fogar con il rispetto e la dirittura morale con le quali si è comportato con me sulla zattera".
Sono parole importanti.
Perché quando il 2 aprile i naufraghi, salvati da un cargo greco, vengono finalmente tratti in salvo, avviene il vero dramma.
Debilitato dai giorni in mare, nel corso dei quali ha perso oltre 40 chili, Mancini muore all'improvviso.
Una dissennata campagna di stampa attribuisce a Fogar la responsabilità dell'accaduto.
Prima avrebbe indotto il giornalista a partire, forzandolo. Poi, una volta recuperati dopo 74 giorni trascorsi nella zattera, non avrebbe capito le vere condizioni di salute del giornalista, e - senza che fosse necessario - avrebbe costretto il capitano della Master Stefanos, il greco Hohannis Kukunaris, a cambiare rotta. Infine, avrebbe comunicato che andava tutto bene.
Non c'è nulla di vero, eppure Fogar diviene un comodo agnello sacrificale.
Quest'episodio lo tormenterà per sempre, scavando in lui una ferita mai più rimarginata.
Da questo momento qualsiasi cosa faccia, Fogar deve difenderla dall'aggressività dei media, che sembrano non perdonargli, inspiegabilmente, nulla di quello che fa o dice.
Progetta una spedizione al polo, in compagnia del fido Armaduck, il suo Husky. Si serve, per l'occasione, dell'appoggio aereo, cosa che non era prevista, ma che lui non smentirà mai. La spedizione non riesce e naturalmente ecco piombargli addosso la solita valanga di critiche.
Ma è arrivato per Fogar il momento di far fruttare tutte le esperienze accumulate nel corso degli anni, di quegli anni febbrili e vissuti a cento all'ora, alla ricerca spasmodica dei limiti umani, o forse, più semplicemente, alla ricerca in sé di qualcosa di oscuro.
Nasce così il progetto Jonathan,dimensione avventura.
E lo fa prendendo il nome del protagonista del romanzo di Bach,Il gabbiano Jonathan, simbolo di libertà e di voglia di immenso, di possibilità di esplorare e di viaggiare,senza altro limite che il cielo e il mare.
Il programma ha un successo straordinario,e và in onda per otto stagioni.
Sono anni intensi,in cui il suo spirito indomito sembra placarsi, teso com'è alla ricerca di posti,situazioni e storie coinvolgenti da presentare a quel pubblico e coloro che hanno sempre ammirato in lui lo spirito da novello Ulisse che sembra pervaderlo.
Ritorniamo ancora una volta al destino.
Che questa volta prepara il conto, e sarà un conto durissimo.
A settembre del 1992 Fogar partecipa al Rally Parigi Mosca Pechino.
L'auto non è il suo mezzo, non gli è congeniale: ma lo spirito di iniziativa lo spinge fatalmente all'ennesima prova.
Nel deserto del Turkmenistan la sua auto si capovolge.
La seconda vertebra si trancia,e si trancia anche il midollo spinale.
La diagnosi è terribile: Fogar non potrà mai più alzarsi da un letto, dovrà dipendere per sempre dalle macchine e dagli altri.
Proprio lui, il navigatore solitario, l'uomo che aveva accettato le sfide della natura con spirito guascone.
E pensare che aveva partecipato brillantemente ad altri rally, tra i quali tre Parigi Dakar e tre Rally dei faraoni. Esperienze che lo avevano portato a riconsiderare il suo rapporto con i mezzi meccanici.
Da quel settembre inizia per Fogar un calvario incredibile.
L'impossibilità di muoversi si unisce all'impossibilità di respirare in autonomia; per qualsiasi cosa deve essere aiutato da qualcuno,fin ai bisogni elementari.
"All'inizio ho pensato molte volte di morire, ho pregato le mie sorelle di portarmi in Olanda per farla finita. È difficile accettarsi quando non sei più quello di prima: ogni impulso è una frustata, ogni desiderio una ferita, nelle mie condizioni devi chiedere aiuto anche per grattarti il naso", dice in un'intervista al Corriere della Sera.
Ma se il suo spirito indomito sembrava fiaccato, pure Fogar trova,con il tempo, forze sconosciute alle quali aggrapparsi. E così inizia la sua battaglia,solitaria, anche se aiutato dalla famiglia, ad un male terribile e crudele.
Racconta ancora: ""È la forza della vita che ti insegna a non mollare mai, anche quando sei sul punto di dire basta - spiega -. Ci sono cose che si scelgono e altre che si subiscono. Nell'oceano ero io a scegliere, e la solitudine diventava una compagnia. In questo letto sono costretto a subire, ma ho imparato a gestire le emozioni e non mi faccio più schiacciare dai ricordi. Non mi arrendo, non voglio perdere..."."
Le parole di una tempra indomita, non piegabile.
"C'è una vita che continua e non posso dire che la mia sia noiosa o monotona".
Sono le parole di un uomo che nonostante tutto non molla.
E così decide di partecipare ad un giro d'Italia in barca a vela, dimostrando che nulla è impossibile, nemmeno per un ammalato nelle sue condizioni. Scrive libri, detta articoli, diventa attivista di Greenpeace nella difesa delle balene.
""Quando sei così, non hai alternative. Più del coraggio serve la speranza, la fede in Dio, la forza che ti dà una persona amica"
Non arrendersi, mai.
E oggi, grazie al progresso della medicina, allo studio sulle staminali, si apre un piccolo, fugace barlume di speranza.
Fogar lo sa, e si aggrappa a questo.
E continua solitario anche nella sua ultima battaglia, quella per la vita.
Oggi esce il suo libro, «Controvento». «Non voglio credere di morire così»
Fogar: farò da cavia per le staminali
L'ex navigatore immobile da 13 anni è pronto ad andare in Cina per sottoporsi alle cure con cellule fetali del neurochirurgo Hongyun
Prega un vento buono che spazzi via le sue nuvole ma non la speranza. Coltiva i germogli di un futuro che forse non attecchirà. Ma ci crede e per lui è la sola cosa che conta. Ambrogio Fogar, il viaggiatore che non si arrende mai, vuole rinascere. «Tentare», come dice lui, dopo tredici anni di immobilità, a fissare nuvole dipinte sul soffitto. E’ pronto a partire per la Cina, dove il neurochirurgo Huang Hongyun coltiva cellule fetali e le trapianta per «riparare» la vita di chi non sa più muoversi.
Fogar si offre come cavia e lo fa dalle pagine di
«Controvento, la mia avventura più grande», un libro Rizzoli scritto assieme a Giangiacomo Schiavi, giornalista del
Corriere della Sera. Il viandante solitario, vorrebbe che si facessero esperimenti con cellule staminali sul suo corpo diventato statua dopo l’incidente del ’92, quando la sua jeep si ribaltò sulla pista del raid Parigi-Mosca-Pechino, nel deserto del Turkmenistan. L’uomo delle mille imprese impossibili ora chiede aiuto all’uomo dei miracoli, il dottore che molti scienziati occidentali guardano con sospetto ma che si dice «forte dei risultati», in alcuni casi tanto evidenti da indurre la patinata rivista scientifica inglese
Lancet a dedicargli un servizio con le interviste a una dozzina di «miracolati».
«Io resisto perché spero un giorno di riprendere a camminare, di alzarmi da questo letto con le mie gambe e di guardare il cielo.»
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