MILANO. Miracolo italiano. Poche cose, come la moto, esprimono il nostro animo nazionale. Capace di mettere insieme estro, genio, scienza, e pure di cavar sangue dalle rape, se necessario. La storia delle due ruote s’intreccia con quella del Paese da oltre un secolo. Industria, sport, costume. E anche uno spruzzo di sacro, ai primordi. Nella Milano d’inizio ‘900, infatti, Corrado Frera decise di lasciar perdere i giocattoli e montare motori sopra le biciclette. Voleva fare della sua officina una grande fabbrica. Bussò a tante porte, ma le uniche che gli concessero un terreno furono le monache canossiane di Tradate. Nacque così la prima industria di motociclette italiane.
La divertente mostra alla Fondazione Mazzotta di Milano, da oggi al 12 marzo, «La motocicletta italiana. Un secolo su due ruote tra arte, storia e sport», riverbera questa avventura, attraverso moto storiche, quadri, manifesti (da Dudovich a Codognato), fotografie. Curata da Adalberto Falletta e Marco Riccardi della rivista Motociclismo, Uliano Lucas per le fotografie, e Massimo Citrulli per i manifesti. Non è la prima volta che le due ruote entrano al museo. Il Guggenheim, per esempio, rese omaggio alla motocicletta, trattandola da oggetto d'arte. Qui, come spiega Gabriele Mazzotta (che da piccolo sognava invano un bellissimo Motom), si fa qualcosa di diverso: «Tecnologia, scienza, grafica, arte, raccontano insieme un fenomeno, una storia sociale, la vita materiale».
I modelli sono una trentina (alcuni valgono centinaia di migliaia di euro). Le bici con motore Lilliput e la Ducati di Capirossi; la Bianchi Freccia celeste di Nuvolari, e la vespa Tap con bazooka incorporato usata dalla legione straniera in Indocina; il Galletto, prediletto dai preti perché consentiva la guida con la tonaca, e la Benelli di Pasolini; il Cucciolo 50, il Ciao, il Volugrafo. E, naturalmente, la mitica MV Agusta di Agostini. «Una grande compagna che mi ha fatto vivere delle gioie che altrimenti non avrei mai provato - ricorda Giacomo Agostini -. Senza di lei io non avrei vinto. E lei, senza di me, non avrebbe “cantato” così bene. Sotto di me correva a 16 mila giri. Per istinto innato, sapevo farla fischiare, urlare. Era musica allo stato puro. E io, il suo musicista».
La prima vera moto del mondo è la Daimler Reitwagen, 1885. Ma alla svolta del secolo furono decine gli artigiani che cercarono di costruire biciclette mosse da motori. Alcune s’incendiavano, altre si schiantavano. Molte funzionavano. L’Italia in breve pullulò di artigiani con le mani tozze, unte d’olio, che creavano dal nulla imprese, senza grandi aiuti dalle banche. Il contadino Gellera, in arte Gilera; Teresa Benelli, giovane vedova di un garagista con quattro figli di mantenere; Giorgio Parodi, figlio d'un armatore genovese e Carlo Guzzi, genio appassionato di motori.
La motocicletta non nacque come mezzo di trasporto. Era troppo scomoda, pericolosa, complicata da usare. Non aveva ammortizzatori, né freni, e per guidarla bisognava fare un sacco di operazioni tutte insieme (per esempio premere la pompetta dell’olio ogni manciata di minuti). Ma era perfetta come simbolo della modernità accelerata. Molto più della automobile, sembrava una specie di appendice metallica dell’essere umano. Non a caso, gli eroi della velocità si chiamavano «centauri», nuove creature mitologiche, ibride di carni, pistoni, pulegge.
Per questo piaceva ai futuristi. Il «motociclista» di Depero è un solido metallico in bianco e nero; quello di Sironi, perde la testa oltre la carta telata, per lasciare protagonista solo il motore imponente. La moto girante di Balla (1914) si centrifuga in un elica geometrica, quella di Piazzi (1919) attraversa un paesaggio di ciminiere cilindriche e fabbriche cubiche. Il ratto d'Europa di Pannaggi (1965-'68) avviene a bordo di una moto, Zeus con casco, occhiali e sciarpa, trascina la ninfa nuda e consenziente, con la chioma risucchiata dal vento della velocità. Quando Pratella mette in scena la romanza futurista dell'Aviatore Dro usa per colonna sonora il rombo d'una moto.
Al fascismo le moto piacevano molto. Erano il simbolo dell’industria nazionale e vincevano all’estero. Mussolini si autodefiniva il «primo motociclista d'Italia» (è un vecchio vizio dei governanti di vedersi protei di mille mestieri, presidenti operai, contadini...) e voleva diffondere «il più fascista dei veicoli», abolendo l’esame di guida e il certificato di idoneità. Per la gioia del duce la banda musicale della polizia municipale sfilava a Roma a bordo di moto Guzzi: con una mano guidavano, con l'altra suonavano lo strumento (con il nuovo codice della strada, oggi finirebbero per lo meno in galera). La grafica pubblicitaria, i manifesti per le corse, trasmettevano meravigliosi messaggi di potenza, agonismo, levità.
Nel dopoguerra la retorica fascista ovviamente si sfarina. Le moto italiane sono ancora tra le più forti del mondo. Gilera e Guzzi, a forza di sfidarsi, finiscono fuori budget e nel '57 si ritirano entrambe dalle competizioni. Ma la nuova frontiera dell'industria è un veicolo comodo, economico, normale. Non più appendice dell’übermensch, bensì il mezzo di trasporto per uomini e donne che lavorano. A Enrico Piaggio, che costruisce pentole, mostrano un veicolo carenato progettato da un genio dell'aeronautica. Lui guarda in silenzio e dice... «che strano, sembra una vespa». Le città si riempiono di scooter, dalle lambrette ai cuccioli. E i manifesti pubblicitari raccontano una storia di sorrisi, di quotidianità, di operosità, di sessi parificati nella facilità di guida, con l’aiuto del Quartetto Cetra, o di Nives Zegna.
La motocicletta diventata normale, al di fuori delle imprese sportive, non ha più cantori. Tatiana Agliani, autrice di un saggio per la mostra milanese, nota per esempio «un'estraneità culturale della fotografia italiana verso la motocicletta e il suo mito». Le immagini esposte alla mostra di Milano, da Berengo Gardin a Jodice, da Sellerio a Fontana, lo dimostrano bene. Ci sono motociclette parcheggiate in nature morte di case coloniche o cortili, pendolari, giovani di provincia più annoiati che arrabbiati, postini imbacuccati nel freddo umido di Luzzara come il Ligabue che si autoritraeva in moto Guzzi, spianate di ipermercati. Nella fotostoria italiana, insomma non c'è Marlon Brando selvaggio, né i chopper di Easy Rider in cerca di libertà, né un Che che attraversa l'America latina e scopre in sella a una Norton la sua vocazione rivoluzionaria. L'icona più forte sulle due ruote, da noi, è piuttosto Vacanze romane, con Gregory Peck e Audrey Hepburn abbracciati in vespa, belli, romantici, eleganti. O il Vigile di Alberto Sordi. Nella celebre foto di Mario De Biasi, Gli italiani si voltano, c'è un motociclo, ma l'occhio di tutti è catturato dall'imperioso sedere della donna vestita di bianco che avanza verso una grande muraglia di maschi sfaccendati. I nostri ribelli sono piuttosto furbetti del quartierino, scippatori da film poliziottesco di serie B, paparazzi in caccia di vip peccatori.
Più o meno intorno alla fine degli Anni 60 arrivano le moto giapponesi. Solide, veloci, resistenti. Il primato dei nostri motori si perde. Ma il miracolo italiano continua. Non ha più il rumore di un cilindro, ma il sorriso beffardo di Valentino Rossi e dei suoi «fratelli», dominatori delle piste, dello stile di vincere e di vivere.
- fonte: La Stampa
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