Prova moto Rossi
Di Guido Meda
“Vuoi provare la moto di Rossi a fine stagione?”. Una domanda così, proprio come quella che ci è stata rivolta ai primi di ottobre, presuppone solo una risposta, stupida, banale. Un sì, di quelli tesi e ben balbettati. Si tratta di farlo a Valencia il martedì dopo il Gran Premio. L’accordo con la Yamaha va in porto in circa 15 secondi. Ci prepariamo, per il 2 novembre, a tre giri in cui sarò il motociclista più fortunato del mondo. La stessa mattina potrò girare anche con la Ducati di Capirossi. Dopo un invito così , per un motociclista medio, ma medio davvero che commenta le corse in tv senza averle mai fatte comincia un count down imbarazzante. Nel curriculum ci sono tanti km per la strada, qualche uscita in pista, un brutto incidente da nemmeno un anno. Niente di più. Ecco perchè non sarà un test di quelli veri, non ci saranno sentenze tecniche, ma solo appunti, pancia, sensazioni e qualche riflessione.
La prova è preceduta da una notte di vigilia tormentata, perché salire sulla M1 col numero 46 sarà un’esperienza esageratamente forte, perché il cielo quando spengo la luce minaccia ancora pioggia e la prospettiva di 250 cv con l’asfalto viscido sotto le ruote è davvero il peggio.
“Grazie, grazie cielo perché stamattina sei sereno, senza una nuvola, grazie aria perché ti offri mite coi tuoi 24 gradi. Grazie moglie che aspetti a casa la telefonata con ottimismo e pazienza”. Paraschiena, tuta, stivali, guanti; tutto va su in un attimo che nemmeno ricordo. Poi la passeggiata coi muscoli delle gambe lattiginosi fino a quel box in cui sono sempre entrato coi jeans e il taccuino. E’ lì nel box che colgo il rispetto e la passione di tutti quei tecnici che armeggiano intorno alla M1 appena rientrata dalla prova del tester che mi ha preceduto. Loro sorridono appena, discreti e silenziosi. Si preparano con l’avviatore dietro alla moto e aspettano che finisca quei quattro gesti tremolanti con cui infilo il casco. Quasi a capire le mie tensioni, anche se forse un po’ mi invidiano perché a loro che sul mostro ci spendono la vita non è data la stessa possibilità. Uno di loro dice solo “when you are ready…”, quando sei pronto…Nessuno mette fretta a questa mano destra che ha sempre sognato di dare anche solo una giratina da fermo alla manopola del gas, giusto per avere un’idea vaghissima di quello che Valentino e i suoi colleghi sentono nel cuore. “Ok”dico, allora l’avviatore fa girare la ruota. La moto è in seconda marcia, il meccanico che ci sta sopra molla secco la frizione e la M1 libera il suo rombo. E’ pronta, più lei del suo improvvisatissimo e occasionalissimo pilota. Salgo. “Ricordati che il cambio è diverso dalle moto da strada. Qui la prima è in su e le altre in giù” dice Davide Brivio. Affermo che lo so, ma non confesso di essermi allenato virtualmente per un mese a quel movimento innaturale, muovendo i piedi a letto, sotto la scrivania, senza farmi vedere. La leva della frizione viene incontro dolcissima. Un colpetto del piede in su e la prima va dentro, solo con un clic, morbidissimo. Via il cavalletto. Partenza. Immaginavamo una procedura infernale per la partenza, con una prima lunghissima e una frizione da campioni. Niente di tutto questo. Rumorosissima (ma nelle orecchie ci sono i tappi) sì, però la M1 si muove in avanti con la stessa facilità di una moto da strada. 100 metri per uscire dai box pensando che il grande momento è arrivato, constatando che la manopola del gas ha una resistenza allo sforzo normalissima. Il primo è un giro per prendere confidenza con una pista mai percorsa. Piano piano, senza piegare troppo. Valencia è tutta curve strette e marce corte, semprechè di marce corte si possa parlare avendo a che fare con una prima da 185 kmh! Alla prima curva stretta sposto un poco il sedere verso l’interno e la M1 va giù e punta dritta alla corda, proprio nel punto in cui avevo posato lo sguardo. Né più larga né più stretta. Il cecchino è lei, non io. Non ricordo più che snocciolando le marce non è necessario usare la frizione. Quindi, la uso. Guido insomma, proprio come se fossi su una moto da strada per strada, non tocco per terra con il ginocchio, non vedo mai il display del cruscotto. Sono vicino alla fine del primo giro, all’inizio del primo rettilineo, della prima sensazione davvero forte. Eccolo il dritto. Giù la testa fuori dalla curva, ma sono troppo teso, troppo guardingo, poco aggressivo. Troppo prima volta mannaggia. Mi lascio scivolare sotto un’occasione senza coglierla. Tocco i 250? Forse, ma non è nulla. Mezzo centimetro di gas pare persino esagerato per la mia carenza di abitudine. Secondo giro; ecco, questo sarà cronometrato. Un po’ l’orgoglio, un po’ che a conti fatti fino a qui è stato tutto normale a parte il rumore, decido di osare. Apro di più sul drittino tra il primo curvone e la seconda curva stretta a sinistra. Questa cosa che ho sotto schizza via urlando, ma non si alza. Va via dritta che pare incollata, né a destra né a sinistra, dritta. Freno senza pensarci e la frenata è potentissima, ma non come immaginavo quando qualcuno mi raccontava che rallentare fa più paura che accelerare, che pare di ribaltarsi. Non è vero. In curva: ci torno come prima, ma più forte. Vedo i fotografi dappertutto, spero in una foto da tener via per sempre e aumento la piega fino a strusciare col ginocchio per terra. Ho una festa nel cuore, perché sento che il ritmo arriva, che la M1 è straordinariamente potente, ma non è un cavallo da rodeo. E’ nei raccordi tra una curva e l’altra che mi rendo conto di essere semplicemente ridicolo. Penso a quelli veri, di cui ho memorizzato il rumore passaggio per passaggio e ascolto il mio rumore. E’ tutto un timidissimo apri e chiudi di gas appena sfiorato, ma è abbastanza. Mai andato così forte! Le immagini e le telemetrie diranno che ho spezzato ogni traiettoria, che ho sbagliato ogni marcia. Ma cosa me ne può importare? Torna il rettilineo. Stavolta sì. Apro, apro un bel po’. Tira esagerata la M1, sibila, spara in avanti, ma nemmeno in prima si mette in piedi. Galleggia davanti con impennatine da 20 centimetri che non danno alcun fastidio anche se sembrano eterne. Sono accucciato dietro al cupolino. La protezione è totale, mai provato niente di simile. Non c’è aria, il casco non sbatte, niente. Solo dopo aver messo la seconda ricordo che posso cambiare a gas spalancato senza usare la frizione, senza perdere giri. Lo faccio. Uguale. Si alza sempre un po’ la moto di Valentino, ma va dritta, fortissimo. La telemetria stavolta parlerà di un passaggio a 286 all’ora! Solo che voglio sapere se ho messo anche la sesta, quindi butto l’occhio sul display. Sono in quinta e per guardare ho perso tempo prezioso, perché quando rialzo gli occhi vedo la prima curva che mi sta venendo addosso. E’ finita, penso. E’ proprio finita. Chiudo il gas disperato, alzo la testa, mi attacco ai freni (molto davanti e un po’ dietro, per abitudine). Mai fatto in modo così brusco a questa velocità. Ed ecco la sensazione più forte della giornata: la Yamaha sembra sprofondare tutta nell’asfalto. Nelle mani arriva d’un tratto una sensazione di controllo infinito. Il posteriore saltella un po’, ma non preoccupa, lo capisci, senti che non è lui che deve lavorare. Arrivo alla curva ad una velocità semplicemente normale e scoprirò solo poi di non aver fatto nulla di lontanamente paragonabile alle staccate dei piloti veri. Ma non dimenticherò mai quella piccola parte di film della mia vita, quell’equilibrio in tutto ciò che è successo nelle risposte della moto ai miei errori clamorosi, alla mia infinita paura. L’ultimo è un maledettissimo giro di rientro. Ne avrei fatti altri 90! Amo questa moto che un anno fa raccontavano assurda. Non sono credibile, ma avrò la conferma dei tester specializzati che girarono con la M1 un anno fa. Che miracolo ha fatto Rossi?! Proverò anche la Ducati di Capirossi e scoprirò davvero un mostro da corsa. La sua è una posizione speciale, lui non è alto. La moto è scomoda e fa male alle braccia. Lei sì che è cattiva. Da far paura. Lei sì che ti dà un calcio nel sedere appena apri quella manopola che ha poca corsa e zero resistenza. Lei è dura da mandare in curva, lei ti dà proprio l’idea della potenza e ti fa sentire zero nella capacità di gestirla, ammirato nei confronti di chi la gestisce. Il mio miglior giro con la Yamaha parla di 2 minuti, che valgono 28 secondi (!!) in più del passo di Rossi. Ecco, ho il cuore in pace. Fanno un altro mestiere, che non si può emulare, che è pericoloso. Un mestiere che richiede talento e capacità talmente speciali da far sembrare normali oggetti del desiderio sinceramente terrificanti.
Agli ordini!
_________________ IO ER MI FRATELLO, COL CARRELLO AL MUGELLO
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